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IL GHIACCIAIO PICO HUMBOLDT E LA STORIA DI ALEJANDRA MELFO

03/04/2020

Per chi ama le montagne questi sarebbero giorni di neve e cielo azzurro, di escursioni, di salite mozzafiato e discese emozionanti.

Dedicato a chi ama le montagne proponiamo una serie di storie e leggende legate ai nostri amati ghiacciai.

La prima storia che vi raccontiamo ci è suggerita da Il Fatto Quotidiano ed è quella di Alejandra Melfo. Fisica dell’Università delle Ande di Mérida Alejandra fa parte di un team di ricerca che sta documentando la sparizione del Pico Humboldt, nel Parco Nazionale della Sierra Nevada, ridotto ormai a 3 ettari. Una ricerca portata avanti nonostante la crisi economica e politica: l’elettricità funziona a momenti e i black-out possono durare settimane, la benzina per gli spostamenti è scarsa. “Il cambiamento climatico è reale, bisogna documentarlo. Bisogna restare”.

La chiamavano la città della neve eterna. Mérida, affacciata sulla cordigliera delle Ande, adesso è la custode del poco che resta dell’ultimo ghiacciaio del Venezuela. Le cime delle montagne innevate disegnavano il paesaggio, era l’unica città dove si poteva vedere la neve in tutto il Paese. “Le nostre case si affacciavano su uno schermo bianco, sui ghiacciai che erano una parte integrante della nostra storia e cultura”, racconta Alejandra Melfo, fisica dell’Università delle Ande di Mérida. “Ormai in Venezuela è rimasto solo un ghiacciaio che sta morendo velocemente. È una questione di anni e non più di decenni”.

L’ultimo ghiacciaio del Venezuela è il Pico Humboldt, nel Parco Nazionale della Sierra Nevada. La crisi climatica ha accelerato il suo scioglimento che è diventato sempre più rapido durante l’ultima decade. Alejandra Melfo fa parte di un team di ricerca dell’Università delle Ande, guidato dall’ecologo Luís Daniel Llambí che sta documentando la sparizione dell’ultimo ghiacciaio del Venezuela, raccogliendo dati che sarebbero andati persi e documentando l’adattamento dell’ecosistema.

“Dalla città di Mérida servono due giorni di cammino per raggiungere il campo base dove accampiamo e altre tre ore a piedi per il ghiacciaio, che si trova a 4800 metri – racconta Melfo -Camminare a quest’altezza è difficile, il sentiero non è segnato e in alcuni punti bisogna arrampicare sulle rocce, muniti di corde. Fa molto freddo e l’ultima volta ci siamo trovati nel mezzo di una tormenta di vento”.

Una ricerca portata avanti nonostante la crisi economica e politica che vive il Venezuela. La fisica Melfo e i suoi colleghi lavorano spesso al buio, alla luce delle candele, l’elettricità funziona a momenti e i black-out possono durare settimane, la benzina per gli spostamenti è scarsa. Nella facoltà di Scienze dell’Università delle Ande non c’è carta, non c’è luce e acqua, la connessione internet e il fax non funzionano e i generatori per mantenere i frigoriferi attivi sono fuori uso.

Molti ricercatori e ricercatrici dell’Università delle Ande hanno già lasciato il Paese. “Ogni settimana mi chiedono perché non me ne vado, perché continuo a parlare di ecologia nel mezzo di una crisi politica – spiega Melfo – L’ultimo ghiacciaio sta morendo. È qualcosa che non può aspettare. Il cambiamento climatico è reale, bisogna documentarlo. Bisogna restare. È molto tragico, molto triste ma anche un’opportunità unica di apprendimento”. Per portare avanti le spedizioni hanno ricevuto un finanziamento da National Geographic Society, che gli permetterà di proseguire per un periodo ma sono preoccupati per il futuro delle ricerche.

dicembre partirà la prossima spedizione per verificare lo stato del ghiacciaio. Il suo scioglimento era stato previsto per una decina di anni fa. È riuscito a resistere grazie alla sua posizione sulla montagna, protetto da un’insenatura, anche se ormai copre solo un’area di circa 3 ettari, al limite di ciò che viene considerato un ghiacciaio.

La scomparsa dei ghiacciai sta procedendo globalmente a velocità sempre più elevata. Dal 1961 al 2016 sono state perse quasi 10 miliardi di tonnellate di nevi perenni dei ghiacciai in tutto il mondo, con un ritmo crescente negli ultimi anni, secondo ricerche di United Space in Europe (ESA) pubblicate sulla rivista Nature. Dopo la Groenlandia e l’Antartide, i ghiacciai dell’America Latina, principalmente quelli della Patagonia sono quelli che maggiormente contribuiscono all’innalzamento dei mari e sono ancora più a rischio a causa delle pressioni delle lobby minerarie, come in Cile.

È diventato fondamentale comprendere cosa succede dopo la morte di un ghiacciaio, l’adattamento dell’ecosistema. “Stiamo studiando le zone dove il ghiacciaio è già scomparso per comprendere la velocità dei cambiamenti. Dopo il ghiacciaio, c’è il ritorno della flora, dei licheni, dei batteri e dei muschi che si combinano per creare nuovo suolo, insieme all’arrivo degli animali e degli insetti impollinatori”, racconta Melfo. La ricerca del team venezuelano è pioniera in questo campo, analizzando uno degli punti più ricchi di biodiversità al mondo.

“Non possiamo salvare i ghiacciai, l’unica soluzione è tenere sotto controllo l’azione umana sui cambiamenti climatici, proteggendo le zone vicino ai ghiacciai che sono molto fragili”, aggiunge la ricercatrice. “I ghiacciai mostrano che una cosa gigantesca come una montagna può sparire e questo da un insegnamento, un’opportunità per capire che il pianeta sta cambiando, che siamo responsabili, indipendentemente dal fatto che l’ultimo ghiacciaio del Venezuela non possa essere salvato – conclude – La morte dei ghiacciai reclama a gran voce di assumerci le nostre responsabilità”.

Special Thanks to Monica Pelliccia.

 

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